Pubblico questi ricordi di Franco Tassi della sua prima venuta sul Pollino nel lontano 1960.
Riflettendo come in questo tempo passato la nostra montagna è completamente cambiata. Forse sono cambiate tutte le montagne! Regna il silenzio assoluto, interrotto solo dai "rumori" degli abitanti dei boschi...
Questo articolo è stato tratto dalla nuova rivista on line TERRE DI FRONTIERA" (http://www.terredifrontiera.info/marzo-2016/) E VUOLE ESSERE un omaggio ad un grande uomo che è stato artefice di una nuova via al vivere sostenibile ...
di Franco Tassi
Non ricordo
più se a spingermi laggiù fossero le indimenticabili pagine di Norman
Douglas, oppure di qualche altro
viaggiatore straniero con le sue incantate descrizioni del mondo che fu. Certo,
bruciavo dalla curiosità di esplorare il Pollino, la più sconosciuta tra tutte
le montagne del Mezzogiorno. Ne avevo sentito parlare da tanto, eppure mi
sembrava ancora lontanissimo, quasi irraggiungibile: così mi accontentavo di
leggere avidamente quel poco che si poteva racimolare su di esso. Riuscii a
trovare, non so come, alcune foto di pino
Franco Tassi |
Ma non sto
parlando di ieri, tutto avvenne molto tempo fa, nella magica estate del 1960.
C’erano poche strade, allora: una volta saltati giù dal trenino delle ferrovie
calabro-lucane a Frascineto, si saliva poi a piedi con zaini pesantissimi dal
livello infuocato del mar Jonio all’aria refrigerante dei 2.000 metri. Gli
immensi boschi pullulavano di mulattieri, bovari, boscaioli e carbonai. Bene,
fu come una rivelazione per me, e per i pochi altri che riuscii a trascinare
negli angoli più remoti del massiccio. A prezzo di solitudini assolate, marce
estenuanti e bivacchi all’addiaccio. La sera si sentivano canti e persino suoni
di fisarmonica: di giorno era tutta una festa di scampanellare di animali al
pascolo, lasciati allo stato semibrado. E tuttavia il cuore della montagna
restava selvaggio, inviolato, misterioso…
“Cosa vieni a cercare quaggiù, tu che arrivi dalla città”, brontolava
bonariamente la gente del posto “Vedi
piuttosto di trovarci un posto di operaio, nelle fabbriche”.
Pino loricato di Serra Crispo (foto di F. Tassi, per gentile concessione) |
E’ passata
mezza vita, molte cose sono cambiate. Ma so che l’ascesa al monte sacro ad
Apollo (o dedicato ai puledri, o polledri: ma importa davvero scoprire la vera
matrice del monte Pollino?) fu in realtà ritornare indietro di mille anni, e
ritrovare le origini di tutto. Comprese
le radici di quei colossali, remoti pini loricati, verdi patriarchi flagellati
spesso da folgori e tormente, abbarbicati sulle creste più elevate e sospesi alle
pareti più inaccessibili. Altri alberi straordinari avrei visto poi, altri prodigi
della natura mi avrebbero ammaliato: ma nessuno quanto la gigantesca conifera
venuta dall’Oriente, dal tronco talvolta bianco e disseccato, ma ancora in
piedi a sfidare i venti, guerriero dalla corteccia arabescata simile a una
corazza. Solo molto più tardi, sulle
balze del monte Olimpo in Tessaglia, trono di Giove e casa degli Dei, avrei
rivisto qualcosa di simile, un altro esercito di pini loricati, antichi e
colossali. E avrei meditato a lungo, in silenzio, a quasi 3.000 metri di quota,
contemplando l’azzurro del mare greco. Di quello stesso Mediterraneo culla
della nostra civiltà, lontana patria dove nacquero divinità e miti, odissee e
leggende, arte e poesia, scienza e filosofia: tutta la cultura, insomma, di
cui impregnata la nostra stessa vita.
“E allora dicci un po’, tu che hai viaggiato”
mi apostrofavano con aria tra lo scanzonato e il provocatorio i montanari
calabresi e lucani, “ma cos’ha poi di tanto speciale
questa montagna?”. Ci sono altre montagne, è vero. Altri alberi e pascoli.
E forse in certi angoli sperduti del Mezzogiorno si celano altre meraviglie
sconosciute. Ma nessun luogo ha per me la storia, il valore culturale e il
richiamo emotivo del Pollino, né custodisce segrete risorse altrettanto
preziose. E la sua stessa vicenda, sempre in bilico tra salvezza e dannazione,
ne ha fatto un caso unico. Quasi un simbolo del profondissimo rapporto tra
l’uomo e la natura.
NELLA FORESTA MAGICA
Più che una
visita, il mio fu quasi un pellegrinaggio di scoperta: di quella realtà poco si
sapeva. Ascendendo alle cime dominate dai plurisecolari pini loricati, m’ero
reso conto che si trattava di qualcosa di unico al mondo, d’un monumento della
storia e della natura che non doveva assolutamente dissolversi . Ecco perché,
in segreto, decisi di adottarli. E con pochi altri amici, finii con
l’intraprendere una lunga battaglia che, in fondo, non è ancora del tutto
conclusa.
Era assai
arduo, all’epoca, evocare l’ecologia. Le parole d’ordine erano: bisogno,
sfruttamento, progresso. Si suscitava, tuttalpiù, qualche risolino di
compatimento. Nessuno sembrava accorgersi che, nel nome dello sviluppo, si
stavano bruciando, in un effimero falò, proprio le più preziose risorse che
avrebbero potuto stimolarlo e nutrirlo.
Anni di lotte,
ansie e peregrinazioni. Ma poi quel lungo sogno impossibile parve avverarsi:
quel Parco tanto desiderato, e con esso anche gli altri, dalla Sila
all’Aspromonte, stavano finalmente trasformandosi in realtà. Sono tornato
allora con il fiato sospeso nei boschi di una volta, trovando molte cose
profondamente cambiate. La natura riprendeva pian piano il proprio dominio,
illuminata dalla curiosità e dall’interesse di italiani e stranieri, giovani e
anziani, che percorrevano con gioia gli antichi sentieri. Gente vera, sulla
montagna, non ce n’era quasi più: ma forse le comunità legate a questa terra
(d’origine italica o bruzia, arberesh o grecanica) stavano cercando altrove un
nuovo avvenire per sé e per i propri figli.
S’era discusso
a lungo sul futuro di questo splendido albero, la cui solenne maestosità rappresenta
uno degli emblemi più intensi del nostro Mezzogiorno. Si temeva che i colossi
solitari delle vette non fossero più in grado di produrre seme fertile, mancavano
piante giovani, né si percepiva una capacità di rinnovazione: tanto da indurre
qualche esperto a lanciare un drammatico allarme per il pericolo di futura estinzione.
Ma poi la situazione prese a migliorare, si scoprirono e si studiarono altri
nuclei di pini rigogliosi, più in basso, tra i boschi. Ci eravamo accorti che
qualche giovane pino, nato dal seme dei patriarchi secolari, vegetava benissimo
al centro dei pulvini prostrati di ginepro, là dove il morso del bestiame
Pino loricato in fiamme nell’incendio doloso,
a Serra delle Ciavole, il 5 agosto 1993
(Foto Giorgio Braschi – Archivio Centro
Parchi).
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E così, dopo
alterne vicissitudini, potemmo faticosamente organizzare spedizioni esplorative
e ricerche dendrocronologiche per carpire i segreti di quella natura straordinaria.
Trovammo moltissimi alberi vetusti, monumenti imponenti testimoni di epoche
lontane. In occasione del centenario della Società Botanica Italiana, nel 1988,
ebbi la grande soddisfazione di rivelare agli studiosi italiani e stranieri che
un pino loricato del versante calabro del Pollino, alla quota di circa 1.000
metri, aveva certamente almeno 920 anni! Era il più vecchio albero del
Mezzogiorno, un gigante millenario che da solo avrebbe aumentato il prestigio e
il valore di quelle montagne. Non fu soltanto per questo, ma l’interesse per il
Pollino, la curiosità anche internazionale e il fervore per la sua
conservazione stavano crescendo di giorno in giorno. I progetti di assalti
distruttivi e speculativi si sgretolarono allora uno dopo l’altro, mentre un
pugno di naturalisti decisi si batteva con tutte le forze per assicurare a quei
luoghi e a quelle genti un destino diverso. Molti giovani locali incominciarono
allora ad accarezzare l’idea di riscattare l’immagine della loro terra agli
occhi del mondo, dedicandosi convinti alla causa della conservazione. E finalmente, dopo anni di attesa, tra
speranze e sofferenze, nell’anno 1993 il Parco Nazionale del Pollino e dei
Monti di Orsomarso diventava realtà. Si concludeva la fase eroica, per aprire la
strada a una nuova vita.
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