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Umberto Caldora (lettera a Gaetano Greco Naccarato, 1963)

venerdì 11 marzo 2016

ALLA SALVEZZA DEL POLLINO - ASCESA ALL’OLIMPO DEL MEZZOGIORNO

Pubblico questi ricordi di Franco Tassi della sua prima venuta sul Pollino nel lontano 1960.
Riflettendo come in questo tempo passato la nostra montagna è completamente cambiata. Forse sono cambiate tutte le montagne! Regna il silenzio assoluto, interrotto solo dai "rumori" degli abitanti dei boschi...

Questo articolo è stato tratto dalla nuova rivista on line TERRE DI FRONTIERA" (http://www.terredifrontiera.info/marzo-2016/) E VUOLE ESSERE un omaggio ad un grande uomo che è stato artefice di una nuova via al vivere sostenibile ...


di Franco Tassi 

Non ricordo più se a spingermi laggiù fossero le indimenticabili pagine di Norman Douglas,  oppure di qualche altro viaggiatore straniero con  le sue  incantate descrizioni del mondo che fu. Certo, bruciavo dalla curiosità di esplorare il Pollino, la più sconosciuta tra tutte le montagne del Mezzogiorno. Ne avevo sentito parlare da tanto, eppure mi sembrava ancora lontanissimo, quasi irraggiungibile: così mi accontentavo di leggere avidamente quel poco che si poteva racimolare su di esso. Riuscii a trovare, non so come, alcune foto di pino
Franco Tassi
loricato, l’albero più straordinario dell’Appennino. Una specie di gigante decrepito, dalla forma contorta, avvolto nella nebbiolina delle alte quote.
Ma non sto parlando di ieri, tutto avvenne molto tempo fa, nella magica estate del 1960. C’erano poche strade, allora: una volta saltati giù dal trenino delle ferrovie calabro-lucane a Frascineto, si saliva poi a piedi con zaini pesantissimi dal livello infuocato del mar Jonio all’aria refrigerante dei 2.000 metri. Gli immensi boschi pullulavano di mulattieri, bovari, boscaioli e carbonai. Bene, fu come una rivelazione per me, e per i pochi altri che riuscii a trascinare negli angoli più remoti del massiccio. A prezzo di solitudini assolate, marce estenuanti e bivacchi all’addiaccio. La sera si sentivano canti e persino suoni di fisarmonica: di giorno era tutta una festa di scampanellare di animali al pascolo, lasciati allo stato semibrado. E tuttavia il cuore della montagna restava selvaggio, inviolato, misterioso… “Cosa vieni a cercare quaggiù, tu che arrivi dalla città”, brontolava bonariamente la gente del posto “Vedi piuttosto di trovarci un posto di operaio, nelle fabbriche”.
Pino loricato di Serra Crispo
(foto di F. Tassi, per gentile concessione)
E’ passata mezza vita, molte cose sono cambiate. Ma so che l’ascesa al monte sacro ad Apollo (o dedicato ai puledri, o polledri: ma importa davvero scoprire la vera matrice del monte Pollino?) fu in realtà ritornare indietro di mille anni, e ritrovare le origini di tutto.  Comprese le radici di quei colossali, remoti pini loricati, verdi patriarchi flagellati spesso da folgori e tormente, abbarbicati sulle creste più elevate e sospesi alle pareti più inaccessibili. Altri alberi straordinari avrei visto poi, altri prodigi della natura mi avrebbero ammaliato: ma nessuno quanto la gigantesca conifera venuta dall’Oriente, dal tronco talvolta bianco e disseccato, ma ancora in piedi a sfidare i venti, guerriero dalla corteccia arabescata simile a una corazza.  Solo molto più tardi, sulle balze del monte Olimpo in Tessaglia, trono di Giove e casa degli Dei, avrei rivisto qualcosa di simile, un altro esercito di pini loricati, antichi e colossali. E avrei meditato a lungo, in silenzio, a quasi 3.000 metri di quota, contemplando l’azzurro del mare greco. Di quello stesso Mediterraneo culla della nostra civiltà, lontana patria dove nacquero divinità e miti, odissee e leggende, arte e poesia, scienza e filosofia: tutta la cultura, insomma, di cui  impregnata la nostra stessa vita.
“E allora dicci un po’, tu che hai viaggiato” mi apostrofavano con aria tra lo scanzonato e il provocatorio i montanari calabresi e  lucani, “ma cos’ha poi di tanto speciale questa montagna?”. Ci sono altre montagne, è vero. Altri alberi e pascoli. E forse in certi angoli sperduti del Mezzogiorno si celano altre meraviglie sconosciute. Ma nessun luogo ha per me la storia, il valore culturale e il richiamo emotivo del Pollino, né custodisce segrete risorse altrettanto preziose. E la sua stessa vicenda, sempre in bilico tra salvezza e dannazione, ne ha fatto un caso unico. Quasi un simbolo del profondissimo rapporto tra l’uomo e la natura.


NELLA FORESTA MAGICA

Più che una visita, il mio fu quasi un pellegrinaggio di scoperta: di quella realtà poco si sapeva. Ascendendo alle cime dominate dai plurisecolari pini loricati, m’ero reso conto che si trattava di qualcosa di unico al mondo, d’un monumento della storia e della natura che non doveva assolutamente dissolversi . Ecco perché, in segreto, decisi di adottarli. E con pochi altri amici, finii con l’intraprendere una lunga battaglia che, in fondo, non è ancora del tutto conclusa.
Era assai arduo, all’epoca, evocare l’ecologia. Le parole d’ordine erano: bisogno, sfruttamento, progresso. Si suscitava, tuttalpiù, qualche risolino di compatimento. Nessuno sembrava accorgersi che, nel nome dello sviluppo, si stavano bruciando, in un effimero falò, proprio le più preziose risorse che avrebbero potuto stimolarlo e nutrirlo.
Anni di lotte, ansie e peregrinazioni. Ma poi quel lungo sogno impossibile parve avverarsi: quel Parco tanto desiderato, e con esso anche gli altri, dalla Sila all’Aspromonte, stavano finalmente trasformandosi in realtà. Sono tornato allora con il fiato sospeso nei boschi di una volta, trovando molte cose profondamente cambiate. La natura riprendeva pian piano il proprio dominio, illuminata dalla curiosità e dall’interesse di italiani e stranieri, giovani e anziani, che percorrevano con gioia gli antichi sentieri. Gente vera, sulla montagna, non ce n’era quasi più: ma forse le comunità legate a questa terra (d’origine italica o bruzia, arberesh o grecanica) stavano cercando altrove un nuovo avvenire per sé e per i propri figli.
S’era discusso a lungo sul futuro di questo splendido albero, la cui solenne maestosità rappresenta uno degli emblemi più intensi del nostro Mezzogiorno. Si temeva che i colossi solitari delle vette non fossero più in grado di produrre seme fertile, mancavano piante giovani, né si percepiva una capacità di rinnovazione: tanto da indurre qualche esperto a lanciare un drammatico allarme per il pericolo di futura estinzione. Ma poi la situazione prese a migliorare, si scoprirono e si studiarono altri nuclei di pini rigogliosi, più in basso, tra i boschi. Ci eravamo accorti che qualche giovane pino, nato dal seme dei patriarchi secolari, vegetava benissimo al centro dei pulvini prostrati di ginepro, là dove il morso del bestiame
Pino loricato in fiamme nell’incendio doloso,
 a Serra delle Ciavole, il 5 agosto 1993  
(Foto Giorgio Braschi – Archivio Centro Parchi).

al pascolo non poteva insidiarlo. E allora capimmo che il vero fattore pesantemente limitante risiedeva nel pascolo eccessivo, che andò gradualmente diminuendo negli anni successivi… Anzi, cessata la pressione zootecnica anomala, il pino loricato è tornato a vegetare rigoglioso,  espandendosi addirittura verso nuove località. Tutto questo non rallentò, anzi galvanizzò il nostro impegno.

E così, dopo alterne vicissitudini, potemmo faticosamente organizzare spedizioni esplorative e ricerche dendrocronologiche per carpire i segreti di quella natura straordinaria. Trovammo moltissimi alberi vetusti, monumenti imponenti testimoni di epoche lontane. In occasione del centenario della Società Botanica Italiana, nel 1988, ebbi la grande soddisfazione di rivelare agli studiosi italiani e stranieri che un pino loricato del versante calabro del Pollino, alla quota di circa 1.000 metri, aveva certamente almeno 920 anni! Era il più vecchio albero del Mezzogiorno, un gigante millenario che da solo avrebbe aumentato il prestigio e il valore di quelle montagne. Non fu soltanto per questo, ma l’interesse per il Pollino, la curiosità anche internazionale e il fervore per la sua conservazione stavano crescendo di giorno in giorno. I progetti di assalti distruttivi e speculativi si sgretolarono allora uno dopo l’altro, mentre un pugno di naturalisti decisi si batteva con tutte le forze per assicurare a quei luoghi e a quelle genti un destino diverso. Molti giovani locali incominciarono allora ad accarezzare l’idea di riscattare l’immagine della loro terra agli occhi del mondo, dedicandosi convinti alla causa della conservazione.  E finalmente, dopo anni di attesa, tra speranze e sofferenze, nell’anno 1993 il Parco Nazionale del Pollino e dei Monti di Orsomarso diventava realtà. Si concludeva la fase eroica, per aprire la strada a una nuova vita.

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