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Art. 21 della Costituzione della Repubblica italiana

Io sono sempre dello stesso parere: sino a quando non sarà rinnovata la nostra classe dirigente, sino a quando le elezioni si faranno sulla base di clientele, sino a quando i Calabresi non indicheranno con libertà e coscienza i loro rappresentanti, tutto andrà come prima, peggio di prima.
Umberto Caldora (lettera a Gaetano Greco Naccarato, 1963)

giovedì 12 maggio 2011

Il Raganello, una storia e un ambiente

In tour… intorno al Torrente Raganello
 Tabellino
  Tempi di percorrenza: questo itinerario si può percorrere facilmente a piedi in due giorni di marcia; oppure con l’uso di un fuori strada in una giornata.
 Lunghezza: circa sessanta km
 Difficoltà: EE (per escursionisti esperti ed allenati)
 Rifornimento idrico: lungo il percorso ci sono numerose sorgenti
 Dislivello: 1200 in salita e 900 in discesa 

Premessa
 Il territorio del Parco nazionale del Pollino si può percorrere lungo una rete di antichi sentieri per oltre duemila chilometri.
 Mulattiere, sentieri, viottoli, tracce di antiche vie che l’uomo locale ha camminato per anni per lavoro, per accudire il gregge al pascolo, per spostamenti e, perfino, per recarsi in pellegrinaggio ad uno dei numerosi santuari mariani presenti nell’area.
  Dopo una parentesi di abbandono dovuta alla grande emigrazione verso il Nord Italia, le genti del Pollino si stanno appropriando  di  un patrimonio ricco di storia, tradizioni, miti e luoghi che non hanno nulla da invidiare alle più rinomate località turistiche del nostro Paese.
  
IL RAGANELLO
  Uno dei tanti percorsi del Parco - forse il più interessante – è sicuramente legato al Torrente Raganello.
 Il Raganello ha un percorso dall’andamento abbastanza tortuoso. In parte è dovuto alla particolare situazione geologica, in parte, invece, è causato dallo sviluppo del cammino del corso d’acqua in un ambiente dominato dall’uomo e dalle sue attività. Ne consegue che “girare” intorno a questo corso d’acqua provoca delle emozioni, attraverso le testimonianze che si leggono nel territorio, alquanto forti.
  Infatti, quest’itinerario consigliato, ha come motivo conduttore il Raganello come ambiente fluviale, come via istmica, come testimone di tormentate epoche geologiche, come paesaggio immutato nel tempo, come spazio severo vissuto e abitato da intere generazioni di uomini.
  
Civita. Il Ponte del Diavolo.
(Ph di E. Pisarra)
Si parte dalla piazzetta di Civita, si scende lungo la vecchia strada d’accesso al paese e ben presto si raggiunge l’alveo fluviale. Già questo primo tratto è un connubio di fatti, vecchi e nuovi, che al lettore attento, mostrano i diversi volti di un territorio. Vi è un’antica filanda, vi sono i resti di un antico ponte, vi sono le opere moderne dell’uomo, vi sono una serie di terrazzi panoramici accuratamente predisposti che invitano l’escursionista a fermarsi a meditare, ad osservare il paesaggio, a chiedersi e ad immaginarsi le fatiche dell’uomo che ci ha preceduto, le sofferenze di colui che ha vissuto con i proventi dei raccolti di questi piccoli appezzamenti di terreno, le fatiche immani per “strappare” a questa natura forte, in una continua lotta, le risorse minime per vivere dignitosamente. Il mulino, di proprietà privata, nei tempi morti, macinava grano per produrre farina per fare il pane per l’intera comunità.
 Si prosegue lungo la facile stradina sulla sponda destra idrografica del Raganello, in un paesaggio, soprattutto agli inizi di giugno, segnato da un prolungato corridoio color fucsia, d’oleandri in contrasto con il marrone chiaro-scuro delle rocce circostanti sedimentate in milioni di anni, testimoni d’immani sconvolgimenti tellurici terrestri.
 In questo paesaggio non è difficile trovare emergenze botanico-forestali d’inestimabile valore.
 L’ontano napoletano, le tamerici, insieme con gli oleandri, ben s’integrano con gli uliveti, gli orti e i campi di grano, le opere estranee al paesaggio, ma necessarie per la sicurezza di chi vive queste località, creati dall’uomo.
 Ben presto si arriva al primo grande sbarramento del Raganello. Costruito in tre anni, a partire dal 1959, questa briglia aveva, nell’intenzione dei progettisti, la funzione di rallentare la velocità dell’acqua, trattenere i detriti fluviali ed evitare pericoli d’inondazione della sottostante pianura di Sibari.
In realtà ha creato un microclima particolare, dando la possibilità a numerose specie, sia  ittiche, sia forestali, di trovare il proprio habitat.
Si passa sullo sbarramento e ci s’incammina lungo la stradina di servizio agli uliveti e ci s’inerpica sulla sponda sinistra del fiume e, guadagnando quota, si recupera la stradina montana che porta a San Lorenzo Bellizzi.
 Lo sguardo, pur messo a dura prova dalle fatiche della salita, non può non soffermarsi sul panorama che si apre: l’alveo fluviale appare in tutta la sua maestosità, gli uliveti fanno da contorno e la statale con il suo traffico d’automobili mostra i segni del progresso.
 Un tempo regnava il silenzio interrotto solo dai rumori della natura; oggi il silenzio della natura è spesso interrotto dai clacson delle automobili che sfrecciano a velocità assurda, incuranti dei danni che esse provocano ad un paesaggio di siffatta bellezza.
 L’arrivo sulla stradina asfaltata rassicura gli animi e fa dimenticare la fatica della salita.
 Si prosegue lungo il nastro d’asfalto, immersi tra campi mietuti di fresco, gialli, contrastati, qua e là, da macchie di colore verde frammiste a rossiccio, di piante di pero in piena maturazione. Spesso il silenzio è interrotto dal belare di uno sparuto gregge che cerca di strappare l’ultimo filo d’erba fresca della stagione.
L’incontro con i pastori è sempre una grande emozione.
Uomo semplice, curioso, il pastore del Pollino,ha necessità di parlare, di scambiare informazioni, di chiedere la provenienza, le motivazioni che spingono l’escursionista a camminare a piedi o in fuoristrada, a visitare questi luoghi.
 Non costa nulla fermarsi e, spesso, un sorriso rende questi uomini meno soli.
La stradina dopo una serie di tornanti porta alla Fonte della Scosa, amena località a circa ottocento metri di quota, super attrezzata con tavoli e panche pronti ad accogliere il visitatore per un momento di sosta e di meditazione.
 Tuttavia è conveniente proseguire in moda da raggiungere il colle e prima di proseguire verso il “paese nuovo” è d’obbligo una deviazione verso la cima della Timpa del Demonio (855 m).
 S’imbocca la pista forestale e in pochi minuti si è sul valico della Timpa. Il panorama non ha eguali.
Il Canyon del Raganello appare in tutta la sua maestosità e l’abitato di Civita, alle pendici dei monti, adagiato su uno sperone di roccia che dà verso il mare, regna sovrano. In condizioni di vento favorevole si sentono perfettamente i discorsi infervorati dei civitesi impegnati in estenuanti dibattiti politici a favore e contro il solito governo di turno.
La Timpa Sentinella (601 m) occulta il paese agli occhi degli estranei. Tant’è che chi vuol visitare questo piccolo borgo deve, per un momento, lasciare la statale ed inoltrarsi all’interno, altrimenti può benissimo proseguire senza accorgersi della sua esistenza. Forse questa è stata la forza della piccola comunità arbereshe dei civitesi che è sopravvissuta fino a nostri giorni.
 Volgendo, invece, lo sguardo verso la forra del Raganello, appare in tutta la sua forza, una natura severa, fatta di rocce a strapiombo, intervallate da piccoli appezzamenti adibiti, un tempo, a pascolo, ora in completo abbandono, testimoni di un’epoca pastorale quasi scomparsa.
Da questo osservatorio privilegiato il Raganello appare come un nastro d’argento che avvolge le grandi pareti a picco accomunandole ad un unico destino.
 Le ultime case di Civita segnano la fine di questa natura selvaggia.
 Si ritorna sul nastro d’asfalto e si prosegue in direzione di San Lorenzo Bellizzi. Si attraversa tutto il crinale della Timpa del Demonio, si raggiungono le prime abitazioni rurali e ben presto appare il vecchio abitato di San Lorenzo.
 Nel frattempo uno sguardo alla Timpa nel lato opposto attira l’attenzione una macchia arancione, la quale, man mano che ci si avvicina, mostra la propria identità. Si tratta della Grotta di Palma Nocera, abitata fin dal neolitico, testimone della penetrazione dell’uomo antico lungo l’asta fluviale del Raganello.
 In questo lasso di spazio, all’occhio attento del visitatore, appaiono chiare le diverse epoche storiche; un tempo l’uomo ha vissuto nella grotta, poi è uscito fuori e nei suoi pressi ha costruito un villaggio, infine, da quando è diventato pastore ed agricoltore, si è trasferito sull’altra sponda del fiume in cerca di terreni più fertili e meno impervi, dove ha costruito il paese.
San Lorenzo appare adagiato su una conca del versante Ovest della Coppola di Paola, ben riparato dai venti freddi su un balcone prospiciente il Raganello. In ultimo chiude l’orizzonte l’imponente e omonima Timpa.
Dall’abitato di San Lorenzo ci si dirige verso la Falconara incamminandosi sulla
Alba sulla Valle del Raganello (ph E. Pisarra)
stradina asfaltata che si dipana dalla piazzetta principale.
 Dopo breve tempo si raggiunge la fonte di San Pietro, dove un’acqua freschissima attende di essere bevuta, prima di impegnarsi, dopo aver valicato il Torrente Maddalena, nella salita verso la Falconara. Il cammino è lungo. Lo sguardo spazia in un ambiente a dir poco contrastato: da una parte il marrone scuro di rocce basaltiche metamorfizzate si contrappongono al grigio dei calcari cretacei dei lisci di San Lorenzo; dall’altra parte il bianco delle casette coloniche con l’aia, gli animali al pascolo, i rumori classici – per noi inusuali – della civiltà contadina sopravvivono, anche se – a dir la verità – sono interrotti dal singolare rumore – questo sì familiare – dei potenti motori diesel dei trattori che hanno sostituito il ragliare dell’asino.
 Man mano che si sale appaiono una serie di strutture agrituristiche molto carine, ben curate e ben inserite nel paesaggio.   
 Il pensiero va a questi coraggiosi gestori che, nonostante tutto, osano sfidare le leggi del mercato, ed investono i pochi risparmi di una vita, sperando che queste nuove attività possano integrare il già misero reddito agricolo.
La lunga salita dà una tregua. Infatti, il crinale si sviluppa per alcune centinaia di metri in quota, consente di “dare un occhiata” all’altro versante. Appaiono all’orizzonte una serie di case, abbarbicate alle pendici di un monte e sopra le sponde di un altro fiume, dai colori sgargianti, messe in fila indiana e in parallelo tra loro, a mo’ d’avamposto lungo la rotta naturale di penetrazione alla montagna.
 Un piccolo stagno subito sotto il piano stradale attira l’attenzione del visitatore.
La particolare vegetazione riparia è luogo ideale di ricovero di piccole testuggini d’acqua dolce, di biacchi e numerosi altri “esponenti” della fauna minore.
 Subito dopo la stradina riprende a salire in direzione della Timpa Falconara (1667 m), oltrepassa una moderna azienda agricola mostrando le numerose pieghe di corrugamento della Timpa. Si entra nel bosco da rimboschimento misto a pino nero e cerri (ambiente ideale del porcino “carne gialla o vavuso”) e, prima di valicare, bisogna dare un’ultima occhiata alla valle della Granpollina, con il minuscolo abitato di San Lorenzo, ed alle spalle, tutto il Golfo di Sibari.
 Il percorso passa alla base della parete Ovest della Falconara: una Timpa fracassata in numerose faglie testimoni d’immani sconvolgimenti tettonici che impressiona non poco il visitatore che lì per lì si accinge a camminarvi sotto.
 Dall’altro lato della stradina si è già raggiunto uno dei due rami sorgentizi del Raganello. Infatti, la Sorgente Boccadoro (1315 m) dà il primo liquido al torrente. In seguito si aggiungerà il secondo ramo proveniente poco sotto Serra di Crispo (1885 m).
Escursionisti in cammino nel Raganello. (Ph archivio Pisarra)
 Il paesaggio è completamente diverso: da un lato il gran bosco della Fagosa, verde, vigoroso, in netta espansione, sormontato dall’imponente crinale roccioso Timpa del Principe-Serra Dolcedorme; dall’altra parte la parete Ovest a strapiombo sul Raganello della Timpa di san Lorenzo la fa da padrone.
 Due mondi naturali che si contrappongono, racchiudono in sé l’alta Valle del Raganello. Uomini e antiche masserie testimoniano una civiltà agro-silvo-pastorale ridotta al lumicino, un tempo fiorente, motore trainante dell’economia non solo locale ma, perfino, regionale.
 Si prosegue sulla stradina sterrata, abbastanza sconnessa, in direzione di Colle Marcione, avendo come punto di riferimento un edificio bianco, che ben presto si rivelerà essere un rifugio adibito a Centro d’Educazione ambientale ottimamente gestito dal personale della cooperativa Silva.
Prima però, si passa dalla Masseria Francomano in tempo per assaggiare la ricotta fresca, appena ottenuta dal latte del bestiame al pascolo, oppure, “mettere sotto i denti” un panino fatto di spesse fette di pane intervallate da ottimo formaggio, accompagnato da un bicchiere di vino rosso “Pollino”.
 L’arrivo a Colle Marcione, chiude l’orizzonte fatto di monti altissimi crestati da tanti “bastoncini” dall’apparenza strana, alti, contorti, piegati, con la chioma ad ombrello che poi ad uno sguardo più attento si riveleranno essere i Pini Loricati di Serra delle Ciavole, testimoni d’epoche glaciali lontanissime.
 Pochi metri oltre il Colle appare in tutta la sua maestosità, la Pianura di Sibari con il Golfo omonimo, la Sila e alcuni paesi della costa ionica. Non è raro vedere nelle giornate fredde e terse invernali Capo Trionfo, Punta Alice e Capo Colonna, estreme propaggini della Calabria ionica.
La strada è ormai una rotabile “di lusso” rispetto a quella percorsa fino ad ora, e ben presto si tuffa sull’abitato di Civita.
Lecci antichi sostituiscono il faggio, ginestre e ginepri prendono il posto dei cerri e delle querce, euforbie e origano sostituiscono la prateria a sesleria.
 Il nastro d’argento del Raganello riappare: questa volta più ampio e brillante, ad avvolgere l’intero contrafforte montuoso prima del mare.
 Le case di Civita disposte ad ombrello aperto accolgono il visitatore che ha osato tuffarsi seppur per poco tempo in uno degli ambienti più vari, più interessanti del Parco nazionale del Pollino.        
     
 ©  Emanuele Pisarra


martedì 22 marzo 2011

Il fascino senza tempo della Lucania arbereshe


La Basilicata è una splendida regione. Peccato che sta al Sud.
Non ricordo chi disse questa sciagurata frase, ma proprio in questi giorni sono in giro per i paesi arberesh del Parco nazionale del Pollino come collaboratore di una troupe televisiva che deve realizzare un documentario sulle comunialbanofone di tutta larea protetta.
Dobbiamo incontrare persone, raccontare storie, riprendere paesaggi, scorci, chiese, figure, situazioni. Tutto. Di più.
È limperativo categorico della regista!
Rispondo che non è mica facile in due giorni fare tutto.
Mi metto in moto e sfoglio la mia agenda telefonica, così forse qualche nome mi suggerisce qualche storia. Alla voce Arberia il computer “vomita diecine di contatti.
Testimoni di quando ero un collaboratore di un prestigioso periodico arberesh.
Come in un nastro che scorre a ritroso, ogni nome ricorda un evento, una richiesta di un articolo, uninformazione, un convegno fatto insieme da qualche parte in Italia e in Europa, una petizione per ottenere lattuazione delle norme di tutela delle minoranze prevista dalla nostra Costituzione.
Quasi tutti questi nomi per diverso motivo hanno fatto parte di una associazione che si batteva per dotare tutte le regioni dItalia dove sono presenti minoranze linguistiche di norme a tutela della storia e tradizione di questi popoli che attraverso mille vicissitudini e tra mille difficol hanno conservato tradizioni, usi, costumi e religiosità. Oltre al fatto dbattersi per una legge-quadro nazionale. Tutto questo sembrava un obiettivo lontanissimo, impossibile da raggiungere, ma per il quale vale la pena battersi.
All’improvviso quasi come un fulmine a ciel sereno nel dicembre del 1999 il parlamento licenziava su proposta dell’allora ministro De Mauro ( e su nostro suggerimento) la legge n. 482  contenente le norme a sostegno delle lingue minoritarie.
Il primo obiettivo sembrava raggiunto. Tuttavia la legge stentava ad essere promulgata dal Presidente della Repubblica  Ciampi che non si sa per quale motivo la teneva nel cassetto. In seguito venimmo a conoscenza delle motivazioni: il presidente Andreotti scrisse una lettera a Ciampi invitandolo a non promulgare questa legge perché avrebbe messo a rischio la coesione del paese e che litaliano non sarebbe stato più la lingua ufficiale e che saremmo ritornati alla situazione preunitaria almeno dal punto di vista linguistico.
Tememmo il peggio.
Dopo oltre un mese il presidente Ciampi sciolse le riserve e il 15 dicembre 1999 vennero pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale delle Repubblica leNorme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche. Altri incontri seguirono dopo questa fatidica data. Soprattutto per fare il punto sullattuazione di queste norme, sulla elaborazione dei decreti attuativi e sulle reali possibilità di conservazione delle minoranze.  A proposito questa associazione si chiamava CONFEMILI ed era un acronimo che racchiudeva una confederazione di tutte le minoranze linguistiche italiane.
Quante storie dietro questindirizzario.
Non è facile tirare fuori tre o quattro indirizzi. Tutti sono carissimi amici ed ottime persone. Mi pare fare un torto ad escluderne qualcuno a favore di altri.
Molti sono in avanzata età.
A differenza dei paesi arberesh della Calabria dove pare che le nuove generazioni siano poco o a dir nulla interessate a queste tradizioni, la Basilicata ha un forte legame con la propria storia. Per esempio a San Costantino albanese ci sono diverse persone giovani che studiano, ricercano, elaborano canti, creano associazioni dove incontrarsi, riconoscersi e fare musica, chiedersi come fare nel mondo globalizzato a conservare le proprie tradizioni.
Per non morire. Continua la scrematura.
Due telefonate ed inizia lavventura.
La prima telefonata è rivolta al parroco di San Paolo albanese, don Francesco Mele, anzi Papàs o meglio, Zoti Mele.
San Paolo albanese vanta di essere il più piccolo paese della Basilicata, in bella posizione geografica, domina la Valle del Sarmento, ha un panorama ad angolo giro che spazia dalla Serra Dolcedorme, al Sirino, al  Golfo di Policoro, al Bosco di Farneta.
Uno splendido cartello colorato informa che San Paolo è un paese arberesh e in bilingue dà il benvenuto. Nulla a che fare con i tristi cartelli blu dell’Anas. Anonimi e tristi. Questi cartelli incutono allegria, armonia e serenità.
Sicuramente sono stati affissi dall’amministrazione provinciale con fond
della Legge quadro sulle minoranze linguistiche che demanda alle provincie la gestione” delle real minoritarie. Al primo tornante stretto spicca la chiesetta di San Rocco, risalente al 1614, come recita laltro cartello turistico, edificata su preesistenti monumenti religiosi che recano vestigia del mondo bizantino.
Abbiamo appuntamento con Papàs Mele che ci aspetta in canonica. Mi ricordavo di un edificio fatiscente, freddo e triste. Invece si tratta di uno dei palazzi di grande interesse acquistati dalla diocesi da una delle famiglie più importanti del paese. Restaurata di recente (ci sono voluti due anni, ricorda Zoti) oggi è una accogliente e calda casa.
Don Francesco ci riceve con gioia, con il sorriso, si rammarica che nel pomeriggio ha un importante appuntamento ad Acquaformosa, il suo paese natio, in provincia di Cosenza, tra i Monti dell’Orsomarso e quindi non può dedicarci molto tempo.
Ci invita nella sua abitazione per un caffè, prima del lavoro è sempre un piacere ritemprare lo stomaco dal lungo viaggio. Nel salotto di casa campeggia un bellissimo quadro che raffigura una persona anziana a dorso dasino mentre rientra in paese. Accortosi della nostra attenzione, Don Francesco, racconta che quel quadro è opera della figlia. Già Don Francesco è sposato ed ha una figlia che lavora a Milano come disegnatrice di moda. “ È anche una brava iconografa. Ha imparato a Roma dal mio maestro Stefano Armacollas. Alto, ben piazzato, con la barba, ben curata, quasi bianca e occhiali da miope.
Dopo il caffè di rito, che per gli arberesh è un segno distinto e di accoglienza nella propria casa, scendiamo giù nella sala ricreazione dove i bambini (pochi per la verità) del paese fanno catechismo e dove Don Francesco ha il suo laboratorio di iconografia. Dipinge icone per la sua chiesa, per altri parroci che ne fanno richiesta.
Disegni, colori, pennelli, progetti, volumi con centinaia di icone di scuola greca e una tavolozza con una immagine appena abbozzata di un viso della madonna glicofilusa.
I tecnici montano le attrezzature per la ripresa ed invitano Don Francesco ad iniziare il lavoro. Subito si mette allopera e in pochi minuti prepara i colori da stendere sulla tavolozza per dare forma al viso della Madonna. Come per miracolo i contorni del viso cominciano a delinearsi e in pochi minuti appare limmagine poi ci trasferiamo in chiesa dove Don Francesco ci mostra liconostasi con le icone che lui ha realizzato in tanti anni e nei momenti liberi della sua attivi pastorale.
Lasciamo San Paolo con una forte emozione che ci rimane dentro.
Scendiamo a San Costantino albanese dove abbiamo appuntamento con un musicista, falegname, guida
ufficiale del Parco e costruttore di surduline.
Quirino Valvano è un giovane appassionato di montagna, rocciatore, guida, componente della squadra Pollino del Soccorso Alpino e nel tempo libero agricoltore.

 Infatti, lappuntamento è nel suo ranch subito dopo il ponte sul Sarmento. Ha rimesso in sesto un vecchio casolare di famiglia (ricordo quando, anni fa, passai a trovarlo e vidi che era impegnato con pala e pico a scavare il pavimento nellovile perché aveva intenzione di farne un laboratorio per la costruzione delle zampogne) circondato da querce, nel silenzio assoluto della campagna: unico suono assordante, monotono è il rumore del Sarmento che sta per ingrossarsi a causa dell’aumento di temperatura che ormai annuncia larrivo della primavera. Infatti, lacqua è già color cenere, tipica della presenza di acqua di provenienza dallo scioglimento delle nevi che, per la verità, ancora ricoprono le alte quote del Pollino lucano.
La giornata primaverile consente a Quirino di lavorare all’aperto. Cappello di lana multicolore che nasconde una folte capigliatura, occhi azzurri, maglione di lana pesante muove le mani con grande sicurezza nell’assemblare i vari pezzi della surdulina: si vede come ha una manualisicura, tipica di chi ha fattquelle manovre centinaia di volte. Innesta le ance e inizia a gonfiare la sacca e poi da fiato alle canne e intona una bellissima pastorale per la gioia degli operatori televisivi.
La regista è molto soddisfatta delle riprese. I tecnici smontano le attrezzature, si incamminano verso lauto ed io mi fermo ancora qualche minuto con Quirino. Siamo amici da tantissimi anni. Gli chiedo come va. Non si batte chiodo, mi dice. Aspettiamo che arrivi la primavera per fare qualche escursione guidata con le scuole, se verranno, visto i tagli alla scuola, che inevitabilmente penalizzano le gite scolastiche.
Nel frattempo sto lavorando alla costruzione di una culla di legno per il bimbo di un mio carissimo amico che dovrebbe nascere tra qualche mese.
Raggiungo la troupe e ci avviamo verso San Costantino dove ci aspettano tre splendide donne che sono le vocalist del gruppo Vuxha Arbereshvet (la voce degli albanesi). Con loro vogliamo registrare dei canti da utilizzare, probabilmente, come colonna sonora del documentario.
San Costantino albanese è un paesino posto nella Valle Sarmento, a 700 metri di quota, poco meno di mille abitanti, tra due valloni, esposto ad oriente, con le case ben restaurate intorno ad un nucleo originario che conserva ancora lantica struttura a pietra a faccia vista tipica delle comuni molto povere che usavano materiali primitivi per costruire le loro abitazioni.
La statale finisce in Piazza Skanderberg, il salotto del paese.
Noi però abbiamo appuntamento davanti al santuario della Madonna della Stella, protettrice del paese.  Uno splendido posto con ampia vista su tutta la Valle e i monti circostanti.   Ideale per cantare senza rumori di sottofondo. In breve ci raggiungono le tre signore. Lo sfondo dei monti innevati, sembra essere circondato dal nastro dargento del Sarmento che, data lora, luccica e brilla in lontananza.
I cantori cantano a cappella tre brani della tradizione arbereshe, oggetto di un nuovo cd musicale arrangiato da Nicola Scaldaferri e Alexandra Nikolskaya in omaggio all’arte poetica di Enza Scutari. Si vede subito che cantano con passione, sono intonate, hanno delle splendide voci dai toni alti che fanno saltare il livello dei decibel.
In pochi minuti si registrano i brani necessari per il lavoro. Non cè bisogno di ripeterli più volte perché sono ben eseguiti. Raccontano della diaspora, ricordano il turco, si rifanno allespansionismo ottomano che fu la causa principale dellemigrazione degli albanesi verso le coste italiane nel XV secolo.
Prossima tappa: la casa del Parco. LEnte Parco nazionale del Pollino ha riadattato una struttura comunale a Centro visita ed accoglienza con le peculiarità tipiche della Valle. Una splendida mostra delle varie fasi della costruzione della surdulina, curata da Quirino Valvano, sfoggia tutta larte e la sapienza di un artigiano del suono che costruisce da se gli strumenti.
Un diorama mostra un ambiente-tipo dei Boschi di San Costantino albanese.
In unaltra sala fanno mostra di se i pupazzi di cartapesta (nuzasit) raffiguranti una coppia in costume albanese , due fabbri e il diavolo, visto secondo la tradizione di San Costantino, ossia con due facce, quattro corna e i piedi a forma di zoccolo di cavallo, la forca e la catena del paiolo.
Nei giorni festa i cinque pupazzi sono montati in piazza e messi in movimento da alcune ruote piene di petardi. I fabbri picchiano sulincudine, gli altri girano su se stessi e alla fine scoppiano tutti.

 Le forze del bene hanno sconfitto il male.
Ma la cosa che colpisce di più è una foto che raffigura una grande frana che nellaprile del 1973 si abbatté sul paese, distruggendolo in gran parte: una sorta di Sarno ante litteram. Lorenzo sostiene che questo è stato linizio della fine. La comuni non ha più voluto costruire nuove case.
La giornata è finita. Ci attende il rientro ma prima è necessaria una pausa caffè prima di rimetterci in
macchina.
In quale bar si ha il miglior caffè?
Naturalmente a casa di Pina. Il caffè con la moca è il migliore in assoluto. Accoglienza e ospitali sono un vanto per la comuni arbereshe.
A casa di Pina cè il marito Lorenzo anche lui componente del gruppo e maestro di musica nelle scuole medie. Suonatore di molti strumenti, voce timbrica forte, anche lui fa parte del gruppo che porta in giro la musica arberesh.
Mi racconta del grande successo ottenuto a Matera a fine anno per la presentazione dellultimo cd musicale che ricorda la “Maestra Scutari, poetessa, scrittrice, insegnante di tante generazioni di giovani sancostantinesi, fondatrice e anima del circolo culturaleVllamija (fratellanza) che tanto ha dato per la comunità.
Altra tappa (lultima) è da Enzoil falegname della Chiesa.
Passiamo dal suo laboratorio, all’ingresso del paese. Sta costruendo una sorta di vara per il procuratore della chiesa di Farneta. Lavoro di cesello per sgrossare il legno che da lì a poco prenderà le sembianze di un angelo, di un giglio e di rami di alloro.
Enzo, sposato con una maestra di sci, sogna di costruire una sorta di Arca di Noè nella Valle del Sarmento, al posto di tutte queste opere di Arte Pollino che i più non capiscono e spesso costano svariate centinaia di migliaia di euro.
Gli brillano gli occhi sai che attrazione turistica avrebbe creato una gigantesca Arca in un isolotto in mezzo al Sarmento?.
Andiamo via con una certa tristezza nell’animo, ma con tanta gioia per aver incontrato tante persone splendide che ancora sorridono alla vita nonostante le difficolquotidiane, di isolamento geografico e solitudine di tutti i tipi.
Mentre percorriamo a ritroso la fondovalle del Sarmento i monti si colorano di rosso. Un tramonto che fa ben sperare!

Emanuele Pisarra

 il quotidiano della Basilicata, pag. 26-27 domenica 20 marzo 2011