Civita. La Chiesa di Santa Maria Assunta, in Piazza Municipio Punto di partenza del percorso effettuato dal Didier. (Foto E. Pisarra) |
È
consuetudine che i popoli si spostino sempre sulle stesse direttrici. Vuoi
perché sono le più comode, vuoi perché sono ormai entrate a far parte della
rete viaria di viaggiatori, commercianti, eserciti, poeti, pittori, re e
regine.
Infatti,
per attraversare la Calabria, tutti gli eserciti, i viaggiatori del Gran Tour,
commercianti e santi hanno percorso per millenni sempre la stessa strada: la
via del console Annio Popilio, meglio conosciuta come Via Popilia, il cammino
consolare che collegava Capua con Reggio Calabria.
Praticamente
questa via si snodava (e in parte ancora oggi è così) seguendo la dorsale dei
monti della Calabria che si sviluppa tra le pendici orientali della catena
costiera, l’alta pianura di Sibari, la Sila Occidentale, la valle del Savuto
per poi giungere nella piana di Gioia Tauro e connettersi con la rete urbana di
Reggio Calabria.
La
logica vuole che tutti coloro che hanno percorso la Calabria lo abbiano fatto
camminando su questa strada. Di conseguenza tutta la parte orientale della
regione è sempre rimasta tagliata fuori dai percorsi dei grandi viaggiatori. Le
motivazioni sono tante: in primo luogo la pianura malarica, la mancanza di
centri abitati lungo le coste, i pericoli provenienti dal mare, le improvvise
piene delle numerose fiumare - che ancora oggi versano milioni di metri cubi di
acqua mista a detriti di ogni genere - hanno costituito un deterrente per
chiunque avesse voglia di avventurarsi nell’attraversare la nostra regione da
questo versante.
Per
anni ho cercato invano testi, guide, libri, resoconti di viaggiatori che
testimoniassero i loro passaggi su questo lato della Calabria jonica.
Lo scrittore Charles Didier (fonte: Wikipedia) |
Mi
pareva impossibile che qualcuno non avesse camminato da queste parti e lasciato
testimonianze scritte.
Un
primo testo in cui mi sono imbattuto (Dello stato delle persone in Calabria, 1865) è stato scritto da Vincenzo Padula (1819-1893), parroco di Acri, prolifico
poeta e scrittore. In verità, però, questo testo contiene più una descrizione
antropologica e comportamentale dei vari popoli che componevano la regione.
Forse possiamo considerarla come la prima guida turistica della Calabria.
Tanti
altri autori, compresi i grandi viaggiatori, hanno scritto del Pollino, ma
nessuno ha fatto cenno in modo più o meno approfondito in particolare al suo
settore orientale.
Quando
le mie speranze ormai erano quasi perdute, mi sono imbattuto nel resoconto del Viaggio
in Calabria di Charles Didier (1805- 1864), poeta e scrittore
francese di origini ginevrine, simpatizzante della massoneria e di Mazzini e
testimone della situazione politica del Mezzogiorno.
Il
resoconto di questo suo viaggio in Calabria fu pubblicato ne L’Italie pittoresque nel 1846 ed è stato
ristampato nel 2008 per i tipi dell’editore Rubbettino.
Dall’introduzione,
curata da Saverio Napoletano, apprendiamo che Didier desiderò visitare la
Calabria sin da bambino, cosa alimentata anche dai vari racconti sul
brigantaggio antifrancese contenuti in tanti libri popolari che in Europa
diffondevano un’immagine fantasiosa della Calabria, soddisfacendo le curiosità
dei lettori.
Carta del Percorso (elaborazione cartografica di E. Pisarra) |
Nel
1830 Didier si spinse nel meridione d’Italia, nonostante le insistenze a
rinunciare a questo viaggio pericoloso che gli vennero sia dall’ambasciatore
del suo Paese, quando andò a ritirare il passaporto, che dal Prefetto; come se
non bastasse anche gli amici più cari si prodigarono nell’elencargli i pericoli
che avrebbe corso.
Nel
suo viaggio egli attraverserà Campotenese, nel ricordo del generale Régnier che,
in questo meraviglioso altopiano, sconfisse le truppe del re di Sicilia. Quindi
toccherà Castrovillari, Cosenza, Lamezia, Tropea, Rosarno (un brutto villaggio decimato dalle febbri malariche…) e Reggio
Calabria.
Non
mi dilungo nel ripercorrere il suo racconto del viaggio di andata. Invece
voglio sottolineare gli ultimi giorni di quel suo viaggio: da quando da Cassano
partì per Civita, San Lorenzo Bellizzi per poi entrare in Basilicata.
Racconta
di Cassano: “piccola città costruita su
un suolo ricco di caverne e bucato da grotte, dove le donne sono considerate prolifiche: arrivano a fare venti-ventidue
figli”(p.94).
Da
Cassano aveva due possibilità per attraversare la Calabria: la strada lungo la
costa jonica e quella che varca il monte Pollino. Per fortuna della nostra
curiosità, scelse la seconda che, come riporta, attraverso una serie di piccoli sentieri incantevoli (…) conduceva da Cassano al paese di Civita. È una
colonia albanese:
segue ancora il rito greco e, su dieci preti, tre sono sposati.
Ho trovato presso di loro molta ospitalità e tanta ignoranza:
essi non dubitano, per esempio, che sia non stato Rousseau che abbia fondato il protestantesimo a Ginevra perché il nome di Ginevra e di Jean-Jacques sono penetrati fino a queste lontane
montagne. Era una domenica; la popolazione in abbigliamento festivo era riunita davanti alla chiesa. Le donne hanno conservato
molte cose del costume
originario, e esse mettevano
un certo lusso di civetteria contadina nei loro costumi a pieghe e nel loro velo rosso fuoco (p.95).
L’aspetto del paese è severo: una lunga cresta di rocce senza vegetazione, e tormentata dai torrenti, minaccia da sempre di rovine il paese posto in basso. La Pietra-di-Demanio, che sta di fronte, non è che una roccia viva, gigantesca, tagliata quasi a picco; il torrente Raganello
si apre penosamente e rumorosamente, al suo fondo, uno stretto passaggio. I fuochi dei pastori, sospesi,
la notte, ai suoi fianchi, fanno uno
strano effetto nelle tenebre (p.95).
Era una fredda mattina di novembre;
affrontai, con un tempo nebbioso, le prime balze del Pollino. Il Pollino è il baluardo e il monte più alto della Calabria: raggiunge
millecento tese [Antica
unità di misura francese equivalente a
m. 1, 949]. Le
zone superiori sono occupate da vaste pianure,
una specie di Sila, ricca di eccellenti pascoli e piante rare. In estate esse sono coperte di greggi ma ridiscendono in marina fin dal mese di ottobre; e questi
luoghi tanto freschi,
così ricercati nei periodi caldi, sono abbandonati sei mesi all’anno alla solitudine, alle gelate, alle tormente.
Civita: antico arco di passaggio (Supporti) . Foto E. Pisarra |
Grandi nuvole nere mi ricoprivano e, come gli dei di Omero, camminavo
nelle nubi. Se qualche colpo di vento le apriva, scorgevo
solo il formidabile precipizio del Raganello
sotto i miei piedi e, sulla mia testa, i bui dirupi della Rasa. Dal punto di vista più elevato
del sentiero, scendevo immediatamente
sul pianoro di Ferolito, vasta radura
scoperta, ineguale, scavata in tutti i sensi da gole profonde e contornata, da una parte, da una catena di rocce nude, dall’altra, dai
fianchi boscosi del Pollino.
Un pallido sole autunnale cospargeva di macchie bianche e livide questo spazio incolto
e privo di colori:
anche queste tinte
smorte sparivano; il sole si velò completamente ed un vento aspro si alzò: spazzava
le montagne e le nuvole
fischiavano sopra
la mia testa; i neri abeti che coprivano come un velo luttuoso le balze del Pollino,
erano a metà coperte
di neve; battuti dalla
tormenta, riempivano l’aria di un’armonia
lugubre, come quella delle onde di un mare burrascoso, e i torrenti invernali, gonfiati dalle piogge,
piombavano rumoreggiando nel fondo dei burroni.
Il cielo diventava sempre più minaccioso, tutto presagiva
un diluvio d’acqua
e in questa cupa estensione, non trovavo un tetto dove ripararmi, non un povero ricovero
di pastore, non una presenza umana. Il sentiero stesso venne a mancarmi:
ne presi un altro per caso e persi la strada.
Una nuova vallata si apriva sotto i miei passi, ma la spessa nebbia mi toglieva
ogni possibilità di orientarmi. Poteva
essere mezzogiorno e sembrava quasi
notte.
Alcuni tronchi spezzati
ostruivano l’abominevole precipizio in cui mi ero lanciato.
Scendevo con una terribile rapidità sforzandomi di vincere la tempesta in velocità. All’improvviso mi sembrò di sentire più giù, e molto lontano dal fondo della valle, i richiami di invisibili cacciatori; rimasi in ascolto, le grida si perdevano negli
abissi.
Il tuono brontolava e si avvicinava, ripetuto
di eco in eco. Solo, dentro questa natura
formidabile, non vedevo
niente attorno a me, solamente pietre
staccate dalla montagna e tronchi
spogli o colpiti dal fulmine; tutto il resto era coperto dalla foschia. Infine incontrai un pastorello che
mi annunciò di un paese ad oltre due leghe da lì; lo trovai subito da solo: era San-Lorenzo-
Belizia, un gruppo di misere case sparse sul fianco della montagna di fronte; ma, interrotto per un
bel pezzo, il temporale si scatenò con rabbia prima
che raggiungessi il riparo; arrivai in questo
miserabile rifugio, fradicio, scalzo e intontito dagli scopi incessanti della folgore.
Spossato da una marcia ininterrotta di dieci ore, andai dritto dal sindaco
al fine di ottenere
un alloggio. Gli presentai il mio passaporto ma non sapeva leggere e bisognò ricorrere
ad una terza persona.
Ciò fatto, il sindaco, che era un contadino, mi inviò da un massaro,
dove passai la serata ad asciugarmi all’angolo del camino.
Non trovai come cena che del rozzo
pane nero ed uno sporco pagliericcio per letto: la stanchezza della giornata meritava di
meglio.”(p.97).
La descrizione prosegue narrando di
come scendesse un’acqua torrenziale, il vento facesse tremare il tetto,
soffiando e gemendo attraverso le finestre e le porte malmesse. Ben presto la notizia
giunse al prete del luogo il quale si recò immediatamente sul posto e lo portò
a casa sua. Questi non esitò ad offrirgli il proprio letto, fino a quando avesse
smesso di piovere, mentre lui si adagiò su una panca nuda.
Il Didier si chiede “quale uomo da noi avrebbe fatto
altrettanto?”
Appena si seppe in giro che in paese era arrivato uno
straniero, tutti lo volevano vedere.
Avvolti nei loro mantelli di pelle di capra, gli abitanti arrivarono in
fila, attraverso torrenti di acqua, con i piedi infangati e si misero in
cerchio intorno a me (p. 98).
Le ragazze passavano davanti la casa
del prete per dare un’occhiata a questo sconosciuto. “Le loro ampie gonne
nascondevano spesso forme non prive di grazie ed eleganza”,
racconta il nostro Autore.
L’ospitalità del prete non si smentì –
narra Didier – nonostante i pericoli in cui il suo ospite poté incorrere in
quanto, sospettato di essere un carbonaro, era tenuto sotto controllo dalla polizia.
Dopo qualche giorno la pioggia cessò,
il sole fece capolino e il nostro viaggiatore si apprestò a lasciare la
Calabria in direzione della vicina Basilicata.
Fin qui il racconto di Charles Didier della sua
traversata del Pollino.
Come ho avuto modo di scrivere più
volte su questo giornale e su altri, per gli escursionisti e, soprattutto, per noi
del CAI che abbiamo nel cuore (oltre che per statuto) il recupero di antichi
percorsi, frequentati o tracciati da viaggiatori, storici, botanici o
commercianti, anche questo fatto da Didier, nel lontano 1830, va annoverato tra
i tracciati storici che il Parco del Pollino possiede, insieme con la “Via
Vincenzo Campinile” sulla Montea, il “Sentiero Michele Tenore” e tanti altri.
Il mio augurio è che questa via Didier
possa essere percorsa da tanti con la consapevolezza del bene immenso che
questo territorio è, con un pensiero per quanti lo hanno attraversato prima di
noi.
Emanuele
Pisarra
Fonte bibliografica:
Charles Didier, Viaggio in Calabria, Rubbettino, 2008
NOTA
Questo articolo è stato pubblicato su PASSAMONTAGNA, Periodico della sezione CAI di Castrovillari
Per chi volesse leggere PASSAMONTAGNA lo trova anche sul sito del CAICastrovillari
http://www.caicastrovillari.it/passa.php
Complimenti. Veramente interessante
RispondiEliminaMolte grazie
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