Ancora oggi è oggetto di studi l’area apicale della cima del monte Manfriana.
Per tutta la
superficie si trovano sparsi sedici blocchi di roccia squadrati di varie
dimensioni, pronti per essere usati per innalzare una costruzione, ma chi sia stato
a scolpirli non si sa.
Così come non si
conoscono i motivi che spinsero un popolo a raggiungere la sommità di questa
cima, crearvi un insediamento, seppur temporaneo, per aprirvi una cava,
estrarre e lavorare quei grossi blocchi di roccia e lasciarli sulla cima in
attesa di essere collocati in ordine da qualche parte.
Che si volesse
innalzare un piccolo edificio si evince dal fatto che uno dei blocchi di roccia
è a forma di architrave, posto in una buca, proprio a pochi metri dalla
cima.
Gli altri sono quasi
tutti a forma rettangolare, tranne uno che ha dimensioni uguali (un quadrato?).
Tutti presentano su di
un lato una profonda incisione che, a detta degli esperti, è identificabile con
l’incavo dove si inserisce un cuneo affinché i blocchi non slittino una volta
messi uno sull’altro.
In mezzo trova posto una conca,
conosciuta come l’Afforcata, nei cui pressi sorgeva un insediamento pastorale (fino
a non molti anni fa.) almeno fino a quando le nevicate abbondanti si
trasformavano, in periodo estivo, in una piccola fontanella dalla quale si
poteva attingere acqua. È curioso il fatto che questa piccola sorgente di volta
in volta appariva e scompariva in diversi punti alle pendici di entrambi i
versanti delle due cime.
I cambiamenti climatici hanno fatto
sì che non nevichi così intensamente da alcuni anni e, quindi, la sorgente è
scomparsa. Di conseguenza anche l’insediamento umano non esiste più. Il tempo
ha distrutto anche i resti delle capanne di legno e lamiera che facevano da
ricovero per uomini e capre.
Per questo non è azzardata l’ipotesi
che la cima orientale fungesse nei tempi antichi da posto di guardia e l’Afforcata
da punto di ristoro e riposo tra un turno e l’altro.
Anche se la Manfriana è una cima di poco sotto i duemila metri di quota, la sua posizione a piramide la rende inconfondibile da qualsiasi punto la si guardi.
Inoltre, una mia ipotesi personale, tutta da verificare, consiste nel fatto che la Manfriana potesse fare da ponte per le comunicazioni tra le città magno-greche poste sulla costa ionica (da Sibari, a Policoro, Metaponto) con le altre comunità della costa tirrenica, in primis Paestum.
Ho sempre pensato a una linea immaginaria che collega la prima “stazione” di comunicazione posta sul Monte Coppolo, nel territorio di Valsinni, con la Manfriana. Entrambe le cime si “guardano” bene e sono ubicate a controllo di due delle “vie istmiche” che consentivano l’attraversamento del Massiccio del Pollino verso la Basilicata.
Una di queste sale dalla Piana di
Sibari, lungo la valle del Caldanello, nel territorio di Cerchiara di Calabria,
per poi proseguire, una volta oltrepassata la Valle del Torrente Maddalena,
verso il Sinni e quindi le città greche lucane.
Sembra che questa strada fu percorsa più volte anche dall’imperatore Federico II di ritorno dai suoi viaggi in Sicilia per recarsi a Melfi e, secondo alcuni storici locali, il nome “Manfriana” derivi proprio dalla storpiatura di “Manfredi”, il figlio prediletto del grande condottiero.
All’altezza dell’abitato di Civita,
esisteva una via che conduce lungo il crinale roccioso, sulla sponda destra
orografica del torrente Raganello, fino al valico della Falconara per poi
ricongiungersi con la direttrice che proviene da Cerchiara per poi scendere al
Sinni.
La realtà di queste vie lo dimostrano
i ritrovamenti e gli insediamenti recentemente trovati nelle due valli.
In entrambi i casi l’insediamento
sulla Manfriana fungeva da punto di riferimento e controllo delle due vie.
Dopo un primo tratto immerso nella
faggeta si esce sul crinale di Timpa del Principe e, da questo momento e per le
due ore successive di cammino, è un continuo saliscendi con una vista dagli
ampi panorami: a Ovest tiene la scena tutta la Valle del Coscile (l’antico
Sybaris), chiusa dalle quinte dei monti della Catena costiera calabrese, a Est,
le ultime rocce delle Timpe digradano verso la Piana di Sibari e il mare ionico;
chiude l’orizzonte il crinale di monti della Sila greca.
Non è raro che nelle giornate ventate
si mostrino in tutta la loro bellezza il Golfo di Sibari e le due “protuberanze
terrestri” di Capo Trionto e Punta Alice.
Il numero del sentiero è il 941.
Emanuele Pisarra
PS
Questo articolo è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista "Il Calabrone" in edicola in questi giorni.
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