Non ho il polso
della situazione degli altri Parchi nazionali in Italia.
Ho, invece, ben
chiara la situazione in cui naviga il Parco nazionale del Pollino.
Anzi, non naviga
proprio, se per navigazione si intende una traversata da un punto di partenza
verso una meta.
Il Piano di Novacco (Photo di E. Pisarra) |
La navigazione –
secondo wikipedia – indica l’insieme di tecniche usate per determinare la posizione e la rotta di una imbarcazione in mare.
Se riportiamo il
pensiero a un area protetta, la realtà è chiara: i parchi, le aree protette in
genere, non hanno nessuna rotta. Nel senso che sono immobili, ferme, in attesa
di un nuovo vento che le porti da qualche parte.
Aspettano una
nuova legge quadro per il momento arenatasi tra gli scogli di un Senato che non
ha interesse immediato (e per molti versi, meno male!) a determinarne una
rotta, una direzione, una meta.
Però, per avere
una rotta, nel senso che si sappia con certezza verso quali lidi navigare,
bisogna avere una posizione.
Se per posizione
si intende: protezione dell’ambiente, difesa del paesaggio,
conservazione di particolari specie botaniche, forestali e tutte le altre cose sulle
quali da anni scriviamo pagine e pagine di commento sull’una o sull’altra
iniziativa più o meno “ecosostenibile”, tranquillamente si può affermare che
non esiste alcuna posizione.
Di conseguenza,
se non sussiste una posizione, è impossibile stabilire una rotta e quindi una
meta.
Questo è proprio
il caso delle aree protette in Italia.
Le cause sono
tante. A partire da un Ministero dell’Ambiente che sembra non sapere della
propria esistenza e quali siano i compiti che è chiamato a svolgere.
In anni non
sospetti ho pensato e scritto che, alla stregua del National Park Service americano, dovesse essere creato un organismo
centrale che desse le direttive (la rotta di cui sopra) entro le quali i parchi
si devono muovere.
Per qualche
tempo, uno dei primi ministri dell’ambiente, provò a creare una specie di
Commissione nazionale, costituita da esperti, docenti e autorità nel campo
ambientale, che potessero redigere una sorta di decalogo giustificativo per l’esistenza
delle aree protette.
Ma cambiò il Ministro
e non se ne fece più niente.
Cambiarono i
governi e la situazione peggiorò sempre di più.
La mannaia del
risparmio a tutti i costi penalizzò in modo tangibile i Parchi, lasciandoli
alla mercede dei singoli dirigenti che si alternarono alla loro guida.
Cambiarono
ancora i governi, e nel 2004 un ministro ebbe un’idea a dir poco bislacca: gli
enti con meno di cinquanta dipendenti avrebbero dovuto essere chiusi.
Rifugi di Piano Novacco |
Si aprì la corsa
a “rimpolpare” il personale degli Enti – soprattutto quelli dei parchi – in
modo da scongiurarne la chiusura.
Oggi registriamo
come questi enti, che dovevano essere il nuovo, il futuro, la vera governance del territorio, del
paesaggio, del benessere dei cittadini, si siano ridotti a mere illusioni, che
hanno vanificato lo sforzo di una generazione intera di uomini, ritrovatisi
come i creduloni che speravano in una nuova rinascita attraverso un uso
corretto del territorio.
Sorrido molto
(ed è – beninteso – un sorriso amaro) per l’ennesimo comunicato di una nota e
meritoria associazione ambientalista (Associazione Italiana per la Wilderness) che
si lamenta dell’apertura, o meglio della gettata di asfalto su una strada del Pollino
nel territorio di Saracena.
Se da un lato,
il Parco del Pollino ha il più alto numero di strade per chilometro quadrato di
superficie, una strada in più o in meno che differenza fa? D’altronde, sono
lontani i tempi in cui un gruppo di persone si opponeva alla costruzione di
strade nel Gran Paradiso, in Abruzzo; oggi questo non è più possibile, sia
perché mancano quelle persone, sia perché si è completamente persa quella
coscienza che faceva arrabbiare, e scendere in piazza per protestare.
Se a questa
mancanza di coscienza, aggiungiamo come molte norme che tutelavano il
territorio siano state cambiate in favore della sua distruzione, e constatiamo
che non si sa chi siano i controllori e cosa controllino, perché di fatto le
guardie sono state “imprigionate” a favore di saccheggiatori senza scrupoli, il
risultato è chiaro.
Di conseguenza
se la posizione si è ulteriormente persa, è assai difficile stabilire una nuova
rotta.
Eppure non
costerebbe molto, in termini economici, rispetto ai danni che si stanno
perpetuando ai parchi e non solo.
Basterebbe
indire un concorso per titoli ed esami a Direttore
sopraintendente di Parco (ne servirebbero solo venticinque in tutta Italia)
per mettere al sicuro questa figura professionale e sganciarla dai voleri dei
presidenti di turno. Invece no: anche nelle proposte delle nuove modifiche alla
legge quadro, questa figura passa, addirittura, a completo appannaggio
del presidente: questi può sceglierlo a proprio piacimento, assumendolo con un contratto
di tre o cinque anni, rinnovabile una sola volta.
Il quesito è: quale
direttore di parco, assunto con queste modalità, farà bene il suo lavoro,
mettendo a rischio il proprio rinnovo?
E torniamo alla
questione delle strade, realizzate con i fondi del Parco.
Ovviamente si
tratta dell’ennesima prova del fallimento di quell’idea di parco che molti di
noi hanno e sostengono, prima la conservazione e dopo, molto dopo, lo sviluppo
sostenibile.
Invece, si fa
l’esatto contrario. Infatti, sono lontani i tempi in cui un parco comprava i
boschi per scongiurarne il taglio: oggi, addirittura, si autorizzano in nome di
una resilienza, e si chiedono finanziamenti europei per abbattere antiche e
vetuste piante.
Il Pollino è un
continuo cantiere di tagli. Si abbattono dappertutto boschi secolari, antiche
piante simboliche (penso agli ontani giganteschi, quasi sentinelle delle
sorgenti del fiume Rosa, che erano scampati agli ultimi tre tagli precedenti),
tutto perché non si sono trovati i fondi per acquisire queste foreste nel patrimonio
forestale del Pollino e della Calabria.
L’unico atto del
genere fu fatto dal primo e unico vero presidente “ambientalista”, che ha avuto
il Parco del Pollino, Mauro Tripepi: egli nel 1997 comprò diecimila ettari di
superficie da una nota famiglia di latifondisti per scongiurare la costruzione di
un villaggio turistico.
Oggi, presidenti
di quella fatta non esistono più.
Cartello di protesta a Piano Masistro |
Per questo i
grandi proprietari che posseggono boschi all’interno del Parco si sono fatti
avanti, impugnando il proprio diritto a tagliare alberi, per realizzare
profitti e reddito.
D’altronde, se l’Ente
Parco non è in grado di offrire loro una alternativa, non avendo ancora un
Piano del Parco, e quindi gli strumenti per opporsi a tali richieste, cosa
potrebbe proporre? Per rafforzare questo
concetto, porto un altro esempio: dopo le proteste a proposito dell’uso di traversine
ferroviarie al creosoto per la realizzazione di un sentiero nel territorio di
Valsinni, l’Ente Parco si svegliò e ne chiese la immediata rimozione ma, ed è
triste dirlo, le traversine sono esattamente lì dove erano state messe in
opera.
Per questo
bisognerebbe fermarsi un attimo, approvare il Piano del Parco, farlo diventare
esecutivo e poi intraprendere quella rotta della quale dicevo.
Se non si dota
il Parco degli strumenti necessari per stabilire da quale parte andare, la
soluzione di tutta la questione è molto semplice: sciogliere l’Ente e “liberare
i cani”.
Per quanto
riguarda la strada di Saracena, essa collega alcune strutture con l’autostrada.
L’una delle due: o togliamo queste strutture (se fossimo negli Stati Uniti, le
avremmo smontate eliminando anche la rete fognante) oppure le rendiamo
accessibili ai mezzi.
Per questo credo
che, in linea di principio, un Ente Parco non deve impiegare i propri fondi per
asfaltare strade.
Tuttavia NON è
stato un errore l’utilizzo di denaro del Parco per fare asfaltare l’ultimo
pezzo di strada che collega Masistro con Campotenese (due anni fa fu rattoppata
la strada che sale a Colle Marcione; prima ancora quelle che portano a
Pedarreto, a Colle del Dragone, oppure quelle che giungono al Piano di Lanzo e
alla Madonna del Pollino, come pure quella che sale a Timpa delle Murge, ecc.).
C’è anche da
dire che negli ultimi anni – visto che sono state abolite le Comunità Montane,
e i Consorzi di Bonifica sono stati “intruppati” di impiegati – l’Ente Parco ha
dovuto fare da supplente per tutto ciò che riguarda l’ordinaria amministrazione
del territorio, compresa la manutenzione delle strade.
Anni fa, a
proposito della conquista della ‘patacca’ della CETS (Certificato Europeo del
Turismo Sostenibile), mi fu chiesto qualche suggerimento a proposito della
fruibilità del Parco.
La mia proposta
fu la creazione di alcuni “Punti di Partenza” (Start Points) da
allestire per poter fruire del nostro territorio.
Ovviamente non
se ne fece nulla, ma io rimango della stessa idea: abbiamo nel nostro
territorio circa trenta rifugi, molti dei quali facilmente accessibili con la macchina,
quindi la manutenzione della viabilità è necessaria e improcrastinabile.
O la cura l’ente
preposto, e nel caso delle strade di montagna tocca alle Comunità Montane e
suoi “derivati[1]”,
oppure all’Ente Parco, che dovrebbe avere una voce in bilancio esclusiva per questi
scopi.
Ovviamente
esiste anche una terza soluzione: eliminare qualche rifugio. Ma se molti dei nostri
rifugi sono stati restaurati con diversi milioni di euro provenienti dalle
casse dell’Ente parco, ora che facciamo? li abbattiamo?
[1] In Calabria i compiti, il
personale e le attrezzature delle Comunità Montane sono finite in mano al nuovo
ente denominato “Calabria verde”.
In Basilicata le Comunità Montane
sono state denominate “Accordi di Programma” e hanno mantenuto compiti, mezzi e
uomini.
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