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Umberto Caldora (lettera a Gaetano Greco Naccarato, 1963)

sabato 6 ottobre 2018

A proposito di numero chiuso



Il ponte del Diavolo (foto di E. Pisarra)
La notizia è di questi giorni: il sindaco di Saint-Gervais, uno dei due comuni che sorgono sul versante francese del Monte Bianco, ha deciso di istituire il numero chiuso per gli alpinisti che intendono scalare la cima più alta d’Europa.
Ha fissato in 214 persone al giorno il numero massimo per coloro che vogliano sfidare i ghiacciai, il freddo e le insidie dell’alta quota pur di raggiungere quella vetta.
Questa notizia apre il dibattito su quanti possono essere gli “avventori” giornalieri dell’alta quota: i ”conquistatori dell’Inutile”, come avrebbe detto Lionel Terray.

Dal 2019 sarà necessario un “lasciapassare” per poter salire in vetta al Monte Bianco dalla via normale francese che passa per il rifugio Gouter. I 214 permessi giornalieri sono pari alla capienza massima offerta dal rifugio Gouter, dove la prenotazione rimarrà comunque obbligatoria.
Hervé Barmasse, su Twitter ha scritto: «Vietare l'accesso alle montagne significa togliere la libertà. Il sindaco esulta, parla di "giornata storica". Ma si tratta della più triste nella storia dell'alpinismo».
Ovviamente del risultato ottenuto è molto contento il sindaco di Saint Gervais, Jean Marc Peillex, fautore da sempre per la regolamentazione degli accessi al Monte Bianco.

Due posizioni, in apparenza, inconciliabili dato che da entrambe le parti si cerca di rendere la montagna “sicura” per tutti coloro che provano a scalare una vetta, in questo caso “la” cima per eccellenza di tutte le montagne europee.
Già agli inizi degli anni Novanta, a causa delle alte temperature estive e delle conseguenti problematiche annesse (scioglimento dei ghiacciai, affollamento, formazione di crepacci e seracchi di notevoli dimensioni), si pensò a diverse soluzioni per vigilare sulla sicurezza in alta quota. Qualcuno suggerì l’applicazione dello stesso metodo di “SOS” allora in uso sulla rete autostradale. Immaginate la via normale al Monte Bianco intermezzata da colonnine rosse?
Per fortuna l’idea fu subito scartata. Oggi l’uso sempre più massiccio della telefonia mobile con le numerose applicazioni ad essa collegate ha ben ottemperato alla necessità di controllare e poter intervenire in caso di bisogno.

Tuttavia non è stato risolto il “troppo pieno” nei rifugi, almeno quelli posti sulle vie normali che conducono alle cime più famose, dove si ripete ciclicamente quello che accadeva già agli inizi degli anni Settanta: gente che dorme per terra, sui tavoli della sale da pranzo, negli androni.
Il Monte Bianco (foto dal web)
Così accade oggi al Goutier, come pure al rifugio Vittorio Emanuele II sulla “classica” del Gran Paradiso: logica conseguenza data dall’aumento del tempo libero, dal miglioramento della tecnologia legata all’equipaggiamento, dalla maggior disponibilità di denaro.

Questo flusso di uomini e denaro porta una ventata di sollievo alle regioni alpine che, difficilmente, vi rinunceranno, sostenendo che ognuno è libero di andare dove vuole, a patto che sia ben equipaggiato e capace di affrontare le insidie della montagna e, soprattutto, dell’alta quota.
Di fatto risultano affollate solo le vie normali che conducono alle cime più famose, mentre le altre languono per mancanza di “clienti”. Così la via italiana al Monte Bianco, che parte dal Rifugio Gonnella, è quasi sempre deserta: vale a dire che si vuole andare in cima ma per la via più facile.
Per quella che è la mia esperienza di guida, direi che non si debba parlare di vero e proprio regolamento di accesso alle montagne in generale.
Tuttavia, per le località più rinomate - prese d’assalto da una sempre maggiore moltitudine di persone che un giorno, non sapendo cosa fare, all’improvviso decide per una gita su un fiume, a una cima o di percorrere una via nota -  urge non una regolamentazione rigida, ma una serie di limitazioni nei numeri, di indicazioni per l’equipaggiamento e informative ben chiare sulle difficoltà che presenta il percorso.
 Per essere più chiaro e portare una testimonianza, seppure ormai lontana nel tempo, racconto di quella volta che decisi di scalare il Monte Cervino nel lontano 1993. Per organizzare la mia ascesa, mi rivolsi per chiedere informazioni all’ufficio turistico della città di Cervinia: la signorina dell’accoglienza, senza dire una parola, prima mi mostrò alcune foto di un grande volume, come a dirmi: “lei è sicuro di voler andare qui sopra?. Se la sente? È capace?” Poi chiamò un giovanotto seduto alla scrivania accanto che si presentò dicendomi di essere una guida alpina e che aveva più volte scalato quella montagna. Quindi, discutemmo delle difficoltà, dei costi, dei pericoli.

Ecco questo è ciò che manca nei nostri paesi a “vocazione turistica”. Non esiste un ufficio che fornisca informazioni precise, fatto di personale capace, che conosca le problematiche dei luoghi, in grado di consigliare (o sconsigliare) una determinata meta. Spesso ci si affida alla rete ma, anche in questo campo, come in tanti altri, essa non può essere perfettamente attendibile.
Una figura “umana”, ben preparata e alla quale rivolgersi nei pressi dei luoghi interessati da itinerari più o meno difficoltosi, è di gran lunga più efficace delle “stellette” di difficoltà poste alla fine di una scheda pubblicata nei siti internet.
Io sono convinto che una tal figura possa costituire un buon filtro, senza per questo essere limitanti o “escludenti” verso una persona o un gruppo.
Regolamentare ha un doppio significato a seconda delle aree geografiche in cui si opera. Sulle Alpi chi va in montagna si porta dietro un caschetto, ha già indossato scarpe idonee e zaino. Sugli Appennini spesso si confonde la spiaggia del mare con le rive di un fiume, pensando che entrambe si possano affrontare con semplici “infradito”. L’andare in un canyon è considerato come una semplice passeggiata nel verde con il complemento dell’acqua.

A ciò dobbiamo aggiungere che la professionalità degli accompagnatori è, spesso, aleatoria, come di sovente accade, per esempio, a Civita: d’estate qui appaiono decine di guide, salvo sparire dopo le prime giornate di settembre.
 Alla domanda bisogna creare l’offerta, senza andare per il sottile, in numero di persone, in equipaggiamento, in tempo: è necessario massimizzare la rendita.
Ma ora più che mai è necessario porre qualche puntello per ridurre i rischi, ottimizzare i costi e dare un servizio fatto di professionalità e qualità.
Resto fermamente convinto che limitare l’accesso ad alcuni luoghi solo a chi ha una certa età non lederà di sicuro la libertà dell’individuo. Indicare i periodi di accesso, il numero di persone massimo che una guida può accompagnare, gli orari, l’equipaggiamento necessario, non è limitare la libertà delle persone, ma serve a scongiurare incidenti gravi, soprattutto sui nostri Appennini dove la cultura della montagna stenta a decollare.

In questo non concordo con Barmasse, Messner ed altri grandi nomi dell’alpinismo italiano.



NB

Questo articolo è stato pubblicato sul periodico della sezione CAI di Castrovillari , n. 3 - settembre 2018 



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