Il ponte del Diavolo (foto di E. Pisarra) |
La notizia è di questi
giorni: il sindaco di
Saint-Gervais, uno dei due comuni che sorgono sul versante francese del Monte Bianco, ha
deciso di istituire il numero chiuso per gli alpinisti che intendono scalare la
cima più alta d’Europa.
Ha
fissato in 214 persone al giorno il numero massimo per coloro che vogliano sfidare
i ghiacciai, il freddo e le insidie dell’alta quota pur di raggiungere quella
vetta.
Questa
notizia apre il dibattito su quanti possono essere gli “avventori” giornalieri
dell’alta quota: i ”conquistatori dell’Inutile”, come avrebbe detto Lionel
Terray.
Dal
2019 sarà necessario un “lasciapassare” per poter salire in vetta al Monte
Bianco dalla via normale francese che passa per il rifugio Gouter. I 214
permessi giornalieri sono pari alla capienza massima offerta dal rifugio
Gouter, dove la prenotazione rimarrà comunque obbligatoria.
Hervé Barmasse, su Twitter ha scritto: «Vietare l'accesso alle montagne significa
togliere la libertà. Il sindaco esulta, parla di "giornata storica".
Ma si tratta della più triste nella
storia dell'alpinismo».
Ovviamente
del risultato ottenuto è molto contento il sindaco di Saint Gervais, Jean Marc
Peillex, fautore da sempre per la regolamentazione degli accessi al Monte Bianco.
Due
posizioni, in apparenza, inconciliabili dato che da entrambe le parti si cerca
di rendere la montagna “sicura” per tutti coloro che provano a scalare una
vetta, in questo caso “la” cima per eccellenza di tutte le montagne europee.
Già
agli inizi degli anni Novanta, a causa delle alte temperature estive e delle
conseguenti problematiche annesse (scioglimento dei ghiacciai, affollamento,
formazione di crepacci e seracchi di notevoli dimensioni), si pensò a diverse
soluzioni per vigilare sulla sicurezza in alta quota. Qualcuno suggerì
l’applicazione dello stesso metodo di “SOS” allora in uso sulla rete
autostradale. Immaginate la via normale al Monte Bianco intermezzata da
colonnine rosse?
Per
fortuna l’idea fu subito scartata. Oggi l’uso sempre più massiccio della
telefonia mobile con le numerose applicazioni ad essa collegate ha ben
ottemperato alla necessità di controllare e poter intervenire in caso di
bisogno.
Tuttavia
non è stato risolto il “troppo pieno” nei rifugi, almeno quelli posti sulle vie
normali che conducono alle cime più famose, dove si ripete ciclicamente quello
che accadeva già agli inizi degli anni Settanta: gente che dorme per terra, sui
tavoli della sale da pranzo, negli androni.
Il Monte Bianco (foto dal web) |
Così
accade oggi al Goutier, come pure al rifugio Vittorio Emanuele II sulla
“classica” del Gran Paradiso: logica conseguenza data dall’aumento del tempo
libero, dal miglioramento della tecnologia legata all’equipaggiamento, dalla maggior
disponibilità di denaro.
Questo
flusso di uomini e denaro porta una ventata di sollievo alle regioni alpine
che, difficilmente, vi rinunceranno, sostenendo che ognuno è libero di andare
dove vuole, a patto che sia ben equipaggiato e capace di affrontare le insidie
della montagna e, soprattutto, dell’alta quota.
Di
fatto risultano affollate solo le vie normali che conducono alle cime più
famose, mentre le altre languono per mancanza di “clienti”. Così la via
italiana al Monte Bianco, che parte dal Rifugio Gonnella, è quasi sempre
deserta: vale a dire che si vuole andare in cima ma per la via più facile.
Per
quella che è la mia esperienza di guida, direi che non si debba parlare di vero
e proprio regolamento di accesso alle montagne in generale.
Tuttavia,
per le località più rinomate - prese d’assalto da una sempre maggiore moltitudine
di persone che un giorno, non sapendo cosa fare, all’improvviso decide per una
gita su un fiume, a una cima o di percorrere una via nota - urge non una regolamentazione rigida, ma una
serie di limitazioni nei numeri, di indicazioni per l’equipaggiamento e
informative ben chiare sulle difficoltà che presenta il percorso.
Per essere più chiaro e portare una
testimonianza, seppure ormai lontana nel tempo, racconto di quella volta che
decisi di scalare il Monte Cervino nel lontano 1993. Per organizzare la mia
ascesa, mi rivolsi per chiedere informazioni all’ufficio turistico della città
di Cervinia: la signorina dell’accoglienza, senza dire una parola, prima mi
mostrò alcune foto di un grande volume, come a dirmi: “lei è sicuro di voler andare qui sopra?. Se la sente? È capace?”
Poi chiamò un giovanotto seduto alla scrivania accanto che si presentò dicendomi
di essere una guida alpina e che aveva più volte scalato quella montagna.
Quindi, discutemmo delle difficoltà, dei costi, dei pericoli.
Ecco
questo è ciò che manca nei nostri paesi a “vocazione turistica”. Non esiste un
ufficio che fornisca informazioni precise, fatto di personale capace, che
conosca le problematiche dei luoghi, in grado di consigliare (o sconsigliare) una
determinata meta. Spesso ci si affida alla rete ma, anche in questo campo, come
in tanti altri, essa non può essere perfettamente attendibile.
Una
figura “umana”, ben preparata e alla quale rivolgersi nei pressi dei luoghi
interessati da itinerari più o meno difficoltosi, è di gran lunga più efficace
delle “stellette” di difficoltà poste alla fine di una scheda pubblicata nei
siti internet.
Io
sono convinto che una tal figura possa costituire un buon filtro, senza per
questo essere limitanti o “escludenti” verso una persona o un gruppo.
Regolamentare
ha un doppio significato a seconda delle aree geografiche in cui si opera.
Sulle Alpi chi va in montagna si porta dietro un caschetto, ha già indossato
scarpe idonee e zaino. Sugli Appennini spesso si confonde la spiaggia del mare
con le rive di un fiume, pensando che entrambe si possano affrontare con semplici
“infradito”. L’andare in un canyon è considerato come una semplice passeggiata nel
verde con il complemento dell’acqua.
A
ciò dobbiamo aggiungere che la professionalità degli accompagnatori è, spesso,
aleatoria, come di sovente accade, per esempio, a Civita: d’estate qui appaiono
decine di guide, salvo sparire dopo le prime giornate di settembre.
Alla domanda bisogna creare l’offerta, senza
andare per il sottile, in numero di persone, in equipaggiamento, in tempo: è
necessario massimizzare la rendita.
Ma
ora più che mai è necessario porre qualche puntello per ridurre i rischi,
ottimizzare i costi e dare un servizio fatto di professionalità e qualità.
Resto
fermamente convinto che limitare l’accesso ad alcuni luoghi solo a chi ha una
certa età non lederà di sicuro la libertà dell’individuo. Indicare i periodi di
accesso, il numero di persone massimo che una guida può accompagnare, gli
orari, l’equipaggiamento necessario, non è limitare la libertà delle persone,
ma serve a scongiurare incidenti gravi, soprattutto sui nostri Appennini dove
la cultura della montagna stenta a decollare.
In
questo non concordo con Barmasse, Messner ed altri grandi nomi dell’alpinismo
italiano.
NB
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